LIBERTÀ DI RELIGIONE E SICUREZZA SOSTENIBILE NELLE STRATEGIE DI CONTRASTO AL TERRORISMO DI ISPIRAZIONE RELIGIOSA IN ITALIA
Una sicurezza sostenibile non è possibile senza il pieno rispetto dei diritti umani.
Le coordinate della “strategia italiana”
Come coniugare libertà e sicurezza di fronte alla minaccia del terrorismo di ispirazione religiosa? Fino a che punto la prevenzione e il contrasto alla radicalizzazione violenta di matrice jihadista può legittimamente impedire o limitare il libero esercizio del culto? E, più in particolare, di quel culto che i terroristi strumentalizzano a scopi politici?
Con questi interrogativi l’Occidente si interroga ormai da vent’anni. Da quando, con gli occhi rivolti alle Twin Towers, ha conosciuto gli effetti devastanti di questa forma di terrorismo.
Di fronte all’allarme generato dal terrorismo di ispirazione religiosa il rapporto tra l’esercizio dei diritti di alcuni e la sicurezza di tutti diventa infatti complesso. Tanto delicato e complesso da indurre l’Ufficio dell’OSCE per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR) a pubblicare una guida per ricordare agli Stati membri che l’adozione delle misure di sicurezza deve comunque avvenire nel rispetto dei diritti umani e della libertà di credo.
Nemmeno la pandemia provocata dal SARS-CoV-2 ha mitigato le preoccupazioni generate dalla propaganda jihadista che, nell’opinione degli analisti, potrebbe addirittura trarre giovamento dall’importanza che internet ha assunto nella vita di ciascuno di noi durante l’isolamento fisico imposto per motivi sanitari.
Come si evince anche dall’annuale rapporto di Europol (European Union Terrorism Situation and Trend report 2021), che, invitando a mantenere alto l’interesse per la minaccia rappresentata dal terrorismo di matrice jihadista, continua a richiamare l’attenzione su carceri e web, da sempre indiziati di costituire i principali veicoli di trasmissione della propaganda jihadista.
I cambiamenti registrati in questi anni dagli attacchi jihadisti sia sul versante degli attori, sia su quello delle strategie non hanno infatti dissuaso i governi e le forze di polizia dall’opportunità di attenzionare tali luoghi. E così mentre un tempo i timori sollevati dal mondo islamico si concentravano per la gran parte sulle cosiddette moschee di periferia, dopo l’11 settembre i sospetti sono transitati su carceri e web. Due luoghi - il primo fisico, il secondo virtuale - che, al di là delle differenze obiettivamente esistenti sarebbero in realtà accomunati dalla propensione a favorire meccanismi di adesione alla causa jihadista. Luoghi in cui il combinarsi di informazioni liberamente assunte, interpretate e ri-articolate in modo assolutamente personale, offre a chi evidentemente ambisce a diventare un eroe la convinzione di poterlo fare perpetrando attacchi terroristici.
Sebbene l’Italia non sia stata ancora vittima di tali attacchi, l’esigenza di attenzionare carceri e web è stata sollevata dalla Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista che, coordinata da Lorenzo Vidino, è stata istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri nel settembre del 2016. Pur escludendo che in Italia il fenomeno della radicalizzazione violenta di ispirazione religiosa sia paragonabile per dimensioni e intensità a quanto si registra in altri Paesi del centro e del nord Europa, tale Commissione ha infatti sostenuto con fermezza l’esigenza di monitorare attentamente i rischi provenienti da questi due luoghi.
L’invito a mantenere alta l’attenzione su carceri e web si affianca peraltro alle misure di diritto penale e di diritto amministrativo che concorrono, nel loro insieme, a delineare la “strategia italiana” di contrasto al terrorismo di matrice religiosa.
Dal 2001 ad oggi il diritto penale italiano è stato infatti oggetto di una serie di riforme che, ispirandosi alle linee guida dettate a livello internazionale ed europeo, hanno rinnovato, modificato e integrato le disposizioni di carattere più generale già vigenti in materia. Si tratta di previsioni che, oltre ad aver inciso sull’originaria definizione di terrorismo (art. 270-sexies c.p.), hanno via sanzionato diverse condotte: l’associazione con finalità di terrorismo (art. 270-bis c.p.); il favoreggiamento (art. 270-ter c.p.); l’arruolamento (art. 270-quater c.p.); l’organizzazione di viaggi a scopo di terrorismo (art. 270-quater.1 c.p.); l’addestramento (art. 270-quinquies c.p.) e il finanziamento (art. 270-quinquies.1 c.p.).
Nel pur condivisibile intento di contrastare la minaccia del terrorismo di ispirazione religiosa, tali norme sono state tuttavia criticate da chi ha segnalato il rischio di una pericolosa involuzione di questo apparato normativo in direzione del diritto penale del nemico. Vale a dire, di un diritto penale che per l’ansia di contrastare la minaccia del terrorismo jihadista anticipa la soglia della punibilità sino al punto da incidere più sulle condotte preparatorie che non su quelle realmente offensive.
A ciò si aggiunga, sul versante del diritto amministrativo, l’ingente ricorso all’istituto dell’espulsione amministrativa che viene stabilmente praticato nei confronti degli stranieri radicalizzati o in via di radicalizzazione, indipendentemente dalla circostanza che questi possiedano o meno il permesso di soggiorno. Alla misura dell’espulsione generica, che era già prevista nel Testo Unico sull’Immigrazione per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (art. 13, comma 1, d.lgs. n. 286/1998), si è infatti aggiunta dopo gli attentati di Londra l’ulteriore fattispecie dell’espulsione per motivi di prevenzione del terrorismo (art. 3 d.l. n. 144/2005 e art. 4, comma 2 d.l. n. 7/2015). I presupposti materiali sottesi all’emanazione del provvedimento di espulsione, che viene disposto dal Ministro dell’Interno (o dal Prefetto competente per territorio, su delega del primo) sono però sommari. Non si richiede né che il soggetto abbia effettivamente agevolato un’attività terroristica, né che lo abbia fatto in forma specifica. Ne consegue l’attribuzione di un ampio margine di discrezionalità al Ministro dell’Interno, o ai suoi rappresentanti sul territorio. A ciò si aggiunga il carattere immediatamente esecutivo del provvedimento di espulsione disposto, che pur ammettendo ricorso alla giustizia amministrativa, non produce effetti sospensivi.
Indicatori della radicalizzazione e pratiche di culto: antinomie/conflitti/incoerenze
Ma la strategia italiana di prevenzione e contrasto alla radicalizzazione violenta di ispirazione religiosa contempla, si diceva, anche l’osservazione dei detenuti coinvolti in tali processi.
Al fine di realizzare un puntuale monitoraggio delle situazioni di rischio l’amministrazione penitenziaria ha introdotto un sistema di controllo che prevede livelli di intensità crescente a seconda dell’entità e della tipologia del pericolo paventato.
Questo sistema suddivide i detenuti da sottoporre a monitoraggio in tre categorie:
- i terroristi: detenuti per reati di terrorismo o estremismo di natura politico-religiosa;
- i leader: in carcere per altri illeciti (ad esempio, reati contro il patrimonio o legati al traffico di stupefacenti) che condividono un’ideologia estremista e risultano carismatici per il resto della popolazione detenuta;
- i follower: detenuti per reati analoghi a quelli commessi dai leader che, seppure non possano considerarsi ancora radicalizzati, ne subiscono però il fascino e l’influenza.
Di tutti questi detenuti, solamente i terroristi (vale a dire i detenuti ristretti per reati di terrorismo, anche internazionale) sono assegnati al circuito Alta Sicurezza 2 (AS2), dove vengono rigorosamente separati dagli altri ristretti per impedire loro qualsiasi attività di proselitismo o di reclutamento.
Il controllo esercitato su tutti i detenuti sottoposti ad osservazione prevede diversi livelli di intensità che crescono a seconda dell’attitudine a fare proseliti e del grado di coinvolgimento manifestato all’interno dei processi di radicalizzazione.
Allo scopo di fornire agli istituti penitenziari elementi di analisi utili a identificare le situazioni meritevoli di attenzione, il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria ha recepito gli indicatori della radicalizzazione che sono stati elaborati nel 2009 da una Commissione internazionale formata da Austria, Francia e Germania, con il supporto finanziario dell'Unione Europea.
Scorrendo tali criteri si nota però come la gran parte di essi si riferiscano a condotte che sono in realtà intimamente connesse con la pratica religiosa dei fedeli musulmani. Possono infatti assumere rilevanza l’intensificarsi della preghiera; un atteggiamento selettivo nei confronti di imam ritenuti moderati; i cambiamenti nell'aspetto esteriore; la decisione di decorare la cella con simboli religiosi; o l'intensificarsi dello studio di argomenti connessi all'islamismo.
Parallelamente all'osservazione condotta sugli indicatori della radicalizzazione il Nucleo Investigativo Centrale (NIC) assicura poi anche il censimento di altri dati rilevanti per l’esercizio della pratica religiosa dei detenuti. Tali dati riguardano i locali adibiti al culto islamico, la preghiera svolta nella camera detentiva, i detenuti che assumono la funzione di imam, il numero di conversioni che si registrano nell’istituto, l’ingresso in carcere di imam autorizzati.
Nonostante siano motivati da ragioni di sicurezza e siano finalizzati ad azioni di monitoraggio, fondate sulla mera osservazione, gli indicatori della radicalizzazione e i dati appena considerati sollevano diversi problemi di legittimità e di opportunità.
Sul piano della legittimità, non si può tacere il rischio che l’esigenza di attenzionare le pratiche di culto dei detenuti finisca per interferire negativamente con il godimento di diritti espressamente garantiti a livello nazionale e sovranazionale. Sul piano dell’opportunità, è evidente quanto complesso sia tracciare con sufficiente precisione la linea di demarcazione che separa la legittima pratica del culto da possibili derive jihadiste. Senza trascurare le difficoltà incontrate da quanti, investiti del compito di osservare e monitorare questo fenomeno, si avvalgono in realtà di strumenti di analisi insufficienti, già soltanto sul piano antropologico, linguistico e culturale.
È, d’altra parte, altrettanto verosimile che un detenuto abbracci l’ideologia jihadista senza manifestare comportamenti sospetti o, viceversa, che l’attenzione rivolta dall’amministrazione penitenziaria alle pratiche di culto dei detenuti finisca per senso di vittimismo, diffidenza o fastidio con l’innescare proprio quei meccanismi di adesione alla propaganda jihadista che le strategie di osservazione e monitoraggio vorrebbero in realtà scongiurare.
Tra diritti, limiti e diversità
Osservazione e monitoraggio sono dunque strategie che, pur non violando direttamente la libertà religiosa dei detenuti, di fatto, possono influenzarne significativamente l’esercizio. E, in quanto tali, prestano il fianco all’obiezione di perseguire più intenti securitari che non di sicurezza in senso proprio. Se la sicurezza rimane infatti un diritto da garantire, al pari dell’esercizio della libertà religiosa, tuttavia il diritto alla sicurezza deve essere assicurato in termini di sostenibilità, vale a dire, nel pieno rispetto di ogni diritto fondamentale dell'individuo.
Occorre inoltre sgombrare il campo dal rischio, implicito nelle strategie sin qui implementate, che le pratiche di culto finiscano per assumere una valenza negativa. Soprattutto, se si ritiene che proprio l’esercizio del diritto di libertà religiosa possa costituire un valido alleato nella contronarrazione alla propaganda jihadista.
La presenza di adeguati locali per l’esercizio del culto; l’assistenza di guide spirituali competenti e qualificate; la possibilità di istruirsi correttamente nella propria fede, evitando interpretazioni fuorvianti, sono solo alcuni esempi di come il concreto esercizio del diritto di libertà religiosa possa contribuire a ridurre quel senso di emarginazione ed esclusione, che talvolta si trova all’origine dei processi di radicalizzazione.
Il sentimento di insicurezza che è entrato prepotentemente nelle nostre società non deve, in altre parole, sacrificare sull’altare della sicurezza né l’esercizio dei diritti fondamentali, né i diversi percorsi di integrazione che sono stati sin qui faticosamente intrapresi. Dignità umana, tolleranza, democrazia, giustizia e libertà, comprese la libertà di parola e di culto, rimangono infatti limiti invalicabili. Come è stato ricordato anche in occasione della dichiarazione comune dei ministri degli Affari interni dell’Unione europea che è stata rilasciata il 13 novembre 2020, all’indomani degli attentati che hanno colpito Francia e Austria. Ma la dichiarazione dei Ministri degli Affari interni dell’Unione europea è andata ben oltre, auspicando, sul versante della libertà di culto, l’adozione di interventi volti a proteggere le persone da un uso strumentale della religione e da interpretazioni della stessa che fomentano la violenza. Detto altrimenti, la lotta all’estremismo violento di ispirazione religiosa non deve condurre a escludere o a stigmatizzare determinati gruppi religiosi; non è diretta contro credi politici o religiosi, ma contro l’estremismo fanatico e violento.
Questa avvertenza si rivela particolarmente importante oggi di fronte al progetto di legge francese confortant le respect des principes de la République che è in corso di approvazione. L’iter di tale provvedimento nasce, come noto, dall’esigenza espressa da Emmanuel Macron già nei primi mesi del 2020 di assumere iniziative volte a rinforzare la laicità dello Stato, a consolidare i principi repubblicani e a combattere il separatismo islamico.
Il contrasto al separatismo islamico che la proposta di legge francese dice di voler attuare rischia però, se non opportunamente meditato e gestito, di irrigidire ancor di più quel separatismo che si prefigge di cancellare, ignorando il vero nodo della questione; ovverossia il tema, ormai risalente, del pluralismo religioso europeo e del posto che l’Islam vi riveste al suo interno. La soluzione di tale questione consapevolmente o inconsapevolmente rimandata per troppo tempo rischia infatti di alimentare il circolo vizioso degli stereotipi, soffiando sempre più forte sul fuoco dei fondamentalisti. Per allontanare tale pericolo bisogna imparare a leggere i rapporti che sussistono tra questo fenomeno e la trasformazione in senso multiculturale e plurireligioso delle società in cui viviamo.
Ma non solo. La promozione di adeguati interventi in questa direzione deve confrontarsi anche con il tema della diversità. La scoperta o la riscoperta della religione che molti detenuti fanno con l’ingresso in carcere nel tentativo di restituire senso e dignità alla propria esistenza si compone, soprattutto per gli stranieri, di elementi non solo religiosi, ma anche sociologici, antropologici e culturali. Comporre la dimensione giuridica del diritto di libertà religiosa con quella multiforme della diversità è una sfida che non deve guardare alla diversità come a un limite, ma come a un valore da garantire nell’irrinunciabile orizzonte del valore/principio dell’uguaglianza e della dignità umana.